PALAZZETTO BAVIERA PRIMO PIANO

I MISTERI DELL’INVENZIONE O LA RICERCA DELL’ASSOLUTO

PREAMBOLO

Gli archeologi e i paleontologi scavano metri di strati successivi di humus o di macerie per raggiungere i primi livelli delle caverne abitate o delle strade delle città scomparse.

La storia della fotografia, pur essendo molto giovane – appena due secoli – è già coperta da miliardi di immagini scintillanti, che rendono difficile risalire alle sue origini.

Chi ha visto il film Matrix ricorderà forse la scena in cui l’architetto, non senza ironia, mostra ai sopravvissuti migliaia di porte tutte identiche: per accedere alla conoscenza, dovranno scegliere quella giusta.

Oggi la conoscenza sembra accessibile all’istante, attraverso queste porte infinite, riflessi moltiplicati senza fine. Ma ciò che appare come consenso – o anche unanimità – non equivale alla verità. Wikipedia, ad esempio, non è un’enciclopedia di verità, ma una raccolta di conoscenze presentate come condivise.

L’invenzione della fotografia è forse la chiave che ha permesso la nascita della nostra società della conoscenza moltiplicata. Studiarne i misteri significa capire i rischi di una conoscenza disincarnata, rivestita di luci seducenti.
Questa mostra presenta documenti d’epoca, oggetti autentici spesso inediti, e belle riproduzioni di fotografie fragili che oggi non viaggiano più. Una serie di composizioni, collocate in alto come un fregio antico, celebra gli inventori e gli ostacoli che hanno dovuto affrontare.

Non appena la possibilità della fotografia si è delineata, la competizione è stata accesa, e poco è mancato che il vero inventore fosse dimenticato.
Si chiamava Giuseppe, Joseph Niépce: giovane professore di scienze, fu retrocesso nel 1787 per aver proiettato immagini di lanterna magica ai suoi studenti. Adottò allora lo pseudonimo di Nicéphore, in omaggio a Nicéforo, giovane funzionario bizantino che nel 787 prese parte al Concilio di Nicea II e contribuì a interrompere, per un tempo, la distruzione delle immagini sacre. Più tardi divenne patriarca di Costantinopoli con il nome di San Nicéforo il Grande. Forse a volte i nomi segnano i destini. Di fatto, con questo nome e una passione da inventore, si dedicò alla ricerca nel primo Ottocento e inventò la fotografia, risolvendo uno dopo l’altro i problemi di ottica e di chimica.
Prudente all’inizio, a partire da gennaio 1825 contattò alcuni specialisti parigini di ottica e di incisione, attirando così l’attenzione di un noto direttore di teatro, Daguerre. Mostrò i suoi primi risultati in Inghilterra nel 1827. Le difficoltà economiche lo spinsero ad associarsi con Daguerre nel 1829. Seguirono anni fertili ma brevi. Niépce morì nel 1833, prima che l’invenzione fosse adottata dall’Académie française e annunciata ufficialmente nel 1839, a nome di Daguerre.

L’emozione fu forte: l’invenzione era attesa. Alcuni scienziati – che avevano conosciuto Niépce o ne avevano solo sentito parlare – ritennero necessario intervenire per difendere la sua memoria. Tra loro, il botanico dei Kew Gardens, Franz Bauer, e l’inviato speciale dell’Accademia delle Scienze di Russia, Joseph de Hamel.

Poi, per un secolo e mezzo, fu dimenticato.

Poco più di trent’anni fa, una fotografa francese dal carattere deciso e con lo stesso cognome, Janine Niépce, si impegnò per sostenere il riconoscimento e la ricerca sull’opera di Nicéphore. Vi dedicò i suoi ultimi anni, incoraggiando in particolare Jean-Louis Marignier, che con rigore scientifico ricostruì passo dopo passo le fasi della scoperta di Niépce.

Questa mostra è dedicata a Janine Niépce.

VISITA VIRTUALE DELLA PRIMA SALA: CHI SIETE SIGNOR’DAGUERRE

Le opere esposte sono originali d’epoca ; per quelle che non possono viaggiare, sono presenti stampe pigmentarie d’interpretazione realizzate in alta qualità su carta fatta a mano a Fabriano.

Queste sono esplicitamente indicate con la dicitura “stampa pigmentaria del 2025”.

Nella base dei muri delle prime due sale trovate altre stampe pigmentarie, realizzate con procedimento misto su base digitale con interventi umani: collage, incisione, ritocco. Ogni composizione è firmata da Pavel Nicotine; da esse nascono le serie di cartoline “I Misteri della Fotografia”.

VISITA VIRTUALE DELLA SECONDA SALA: NICEPHORE NIEPCE

VISITA VIRTUALE DELLA SECONDA SALA: ALPHONSE-EUGÈNE HUBERT

VISITA VIRTUALE DELLA TERZA SALA: IL FANTASMA DELLA REGINA

VISITA VIRTUALE DELLA SECONDA SALA: ALPHONSE-EUGÈNE HUBERT

I MISTERI DELLA FOTOGRAFIA Eliocromie pedagogiche

Edizioni Atelier 41, via Fratelli Bandiera, Senigallia

PRIMA SERIE MYT, dedicata ai miti e precursori – dediscaglie

SECONDA SERIE JNN, Vita di Joseph Nicéphore Niépce, dediscaglie

TERZA SERIE DAG, 1839 – proclamazione dell’invenzione al nome di Daguerre, dediscaglie

SPAZIO VISIONARIA – MOSTRA COLOMBIA

La prodigiosa rinnovazione dell’immagine

Come in molti territori americani colonizzati dall’Europa alla fine del Quattrocento, anche in Colombia la scrittura della storia e la costruzione di una tradizione visiva hanno svolto un ruolo centrale nella definizione della cultura nazionale.

Di fronte alla cancellazione di un passato millenario da parte delle armi, delle dottrine e delle immagini imposte dalla colonizzazione spagnola, la fotografia colombiana — i cui primi esperimenti risalgono al 1840 circa, e il cui primo dagherrotipo conosciuto è datato 1842 — si è affermata sin dagli esordi, più di ogni altra pratica iconografica, come emblema di un presente nuovo: riflesso della promessa di una giovane repubblica, illuminata, moderna, animata da ideali di progresso, malgrado le forti tensioni politiche e le persistenti disuguaglianze sociali.

Accolta con entusiasmo in tutto il continente americano, l’invenzione della fotografia ha avuto in Colombia una risonanza particolare. Dalle immagini dei tropici che hanno nutrito l’immaginario europeo fino all’apparizione miracolosa della Vergine di Chiquinquirá nel XVI secolo, passando per il destino singolare di un giovane pugile afrocolombiano originario del Palenque de San Basilio, la fotografia colombiana ha dato vita a racconti visivi potenti, capaci di trasformare il nostro sguardo sulla storia e sull’identità del paese.

Durante il XX secolo, con il declino delle pratiche d’atelier, la fotografia rinasce in un contesto segnato dall’emergere dell’immagine di stampa — non più semplice illustrazione, ma forma d’espressione personale —, dall’inasprirsi dello scontro tra i due principali partiti politici e dalla nascita di una pratica artistica moderna. La rappresentazione dell’insurrezione del Bogotazo nel 1948, la censura esercitata sulle immagini del periodo della Violencia, le trasformazioni urbane e sociali di Bogotá, oppure le immagini simboliche della modernizzazione spesso frustrata del paese, riportano l’immagine fotografica — e più in generale quella fotosensibile — al centro del racconto storico, come strumento essenziale nella costruzione di una memoria collettiva, critica o condivisa.

Eppure, nonostante questa importanza, la fotografia è rimasta per molto tempo ai margini dell’interesse collezionistico e istituzionale, trattata come un passante discreto nella storia dell’arte e delle immagini. Solo a partire dagli anni Ottanta si sono sviluppate le prime ricerche approfondite e le prime collezioni, pubbliche e private.

L’esposizione La prodigiosa rinnovazione dell’immagine — il cui titolo rimanda all’episodio miracoloso della riproduzione dell’immagine della Vergine di Chiquinquirá — propone il punto di vista originale di una collezione privata italiana sulla storia della fotografia in Colombia. A distanza di oltre quarant’anni dalla partecipazione ufficiale della Colombia alla Biennale di Venezia del 1980 — all’epoca interamente dedicata alla fotografia nazionale — questa mostra valorizza immagini spesso anonime, antiche e apparentemente ordinarie, che costituiscono invece la base profonda di una cultura visiva complessa, talvolta accostata al realismo magico.

Molte delle fotografie qui raccolte seguono idealmente il tracciato della Carrera Séptima, l’antica Calle Real di Bogotá. Su questa strada si affacciano le sedi del potere esecutivo, legislativo, giudiziario ed ecclesiastico; vi si consuma l’assassinio di Jorge Eliécer Gaitán nel 1948, che segna l’inizio della Violencia; vi sfilano i rifugiati dei conflitti politici e del narcotraffico; vi passano gli orfani della guerra; vi combatte e trionfa Kid Pambelé; vi lavora il fotografo Manuel H.

La Séptima è allo stesso tempo scenario, testimone e archivio: una via reale e simbolica lungo la quale si snodano le immagini e le storie presentate in questa esposizione.

Giovedi 19 giugno rotonda a mare: Due film di Jean-Hugues Berrou

Non sulle tracce di Rimbaud, ma su quelle del desiderio di partire

Non si tratta di cercare una “via Rimbaud” o lo “spirito dei luoghi”, ma piuttosto di accettare di perdersi, di affidarsi al caso, di misurare l’erosione del ricordo e di tracciare nuove strade.

Per ritrovare, forse, come fece Rimbaud in Abissinia, la presenza pura di un uomo o di un luogo, fuori da ogni memoria.

Nel 2006 ho vissuto quattro mesi nella casa di Rimbaud a Charleville-Mézières, per un film documentario. Non ho cercato Rimbaud nella città, né spiegazioni alla sua fuga continua.

Charleville si è nel frattempo riconciliata con lui: lo celebra, lo modella in bronzo, cioccolato, perfino in terrina. Ciascuno sembra costruirsi il proprio Rimbaud. Così è nato Praline® – come le praline col suo volto vendute vicino a Place Ducale.

Praline®

Il film segue due custodi del cimitero Boutet, dove si trova il sepolcro della famiglia Rimbaud. Questo luogo genera una “costante R”, una forza lieve ma continua, che fa deviare gesti e pensieri.

Praline® oscilla tra due desideri: restituire a Rimbaud il suo slancio verso l’altrove, e dare voce a chi è rimasto.


OGADEN – la finzione

Nel film Ogaden, il custode del cimitero, stanco di sentire Rimbaud deriso nei bar, decide di cremare le sue spoglie e portarle in Etiopia.

La seconda parte si apre a Harar. Il custode, ora Jean-Paul, vuole seppellire le ceneri lungo l’antico sentiero delle carovane del caffè, che conduce a Zeilah, sul golfo di Aden. Da lì, i boutres navigano verso l’Arabia.

È la stessa rotta che Rimbaud percorse nel 1891, su una barella portata da sedici uomini, per raggiungere Aden e curare la gamba malata.

Fu amputato a Marsiglia, dove morì il 10 novembre.